Desidero inaugurare questa iniziativa con un mio racconto intitolato “Suské”, il “vezzeggiativo” era spesso usato per me da mia madre, e da me molto apprezzato, e tuttavia utilizzato con intenti malevoli può sottolineare inferiorità di razza, e quindi può diventare non solo deplorevole, ma può causare immenso dolore.
- Il termine Suské vuol dire bacarozzetta. La parola persiana, indeterminata quanto al genere, ha una connotazione affettuosa.
- Khale Suskè, Zia Bacarozza, è un personaggio delle favole.
La madre le vuotò l’ultima cucchiaiata di riso nel piatto. Poi si udì soltanto rumore di piatti e posate, e di cibo masticato. Lei se ne stava a capo chino; non lo sollevò che quando i rumori si erano fatti più radi. Quando il suo sguardo s’incontrò con lo sguardo di sua madre, ella un po’ stupita le chiese. – Perché non mangi?
Sua sorella le gettò un’occhiata: – Non ha il cucchiaio!
– Perché non l’hai detto subito? – chiese la madre, ridendo.
Lei non accennò a un sorriso, né disse una parola. Soltanto sentì di non avere più fame.
Desiderava, lei, che sua madre le comprasse una bambola di coccio, le facesse una bella palla di stoffa e, quando andava a fare la spesa, non dimenticasse le prugne selvatiche e le radici di rabarbaro. Voleva che suo padre la accompagnasse alle giostre; e le mattine che passeggiando arrivava fino al cimitero degli Armeni, portasse anche lei. O, almeno qualche volta, le comprasse quel lecca-lecca fiamma a forma di galletto.
Precisamente non ricordava da quando si era accorta del proprio colore. Né sapeva se la chiamavano Suské perché era così nera, o se era diventata tanto nera perché la chiamavano Suské. Soltanto era certa che, crescendo, la sua pelle sarebbe diventata più tesa, e quindi più bianca.
Suské cresceva; la sua pelle si tendeva; ma non mutava colore. E questo era diventato un tale cruccio per lei, da trasformarsi a poco a poco in un desiderio assillante. Voleva essere uguale agli altri, né più né meno.
Sua sorella, che forse si era accorta del suo problema, un giorno le bisbigliò in un orecchio: – Se spalmi yogurt sul viso, diventi bianca. Da allora ogni giorno, dopo pranzo, erano andate alla fontanella: con cura la sorella le aveva spalmato sul viso lo yogurt, aveva atteso che il sole lo seccasse, e l’aveva fatta lavare per bene. Ma neanche dopo tutto questo il suo colore era cambiato.
Un giorno Suské, uscendo di scuola, notò un bellissimo sassolino. Lo colpì con la punta del piede, e quello schizzò qualche metro più in là. Le piacque. E allora… dai il sassolino a saltare, dai lei a rincorrerlo, finché si accorse che si era fatto buio. Piena di spavento, cominciò a correre verso casa. Per strada inventò mille bugie per cavarsela alla domanda: – Perché hai fatto tardi?-. Ma contro ogni previsione, si avvide che nessuno aveva notato la sua assenza. Fra sé pensò: – Se che ci sono o non ci sono è uguale, allora perché ci sono?-. E da quel giorno due domande avevano occupato i suoi pensieri: – Perché esisto? Perché sono nera?
Una notte scivolò nel letto accanto a sua sorella, e piano le disse: – Se ti chiedo una cosa, tu mi rispondi?
– Come ti salta in mente, a quest’ora di notte, di fare domande!?
– Perché non ho più pazienza.
– Evvabbene… sentiamo.
– Noi perché viviamo? Nel senso… da dove viene la nostra esistenza?
– Beh, è chiaro!… Siamo stati creati da Dio.
– E Dio chi l’ha creato?
– Dio?… Nessuno! Lui è sempre esistito.
– Com’è possibile che qualcuno sia sempre esistito senza che nessuno l’abbia creato?
– Eppure è possibile.
– Se nessuno l’ha creato, come ha potuto pensare di crear noi? Chi gliel’ha insegnato?
– Lui non ha bisogno di imparare le cose da qualcuno. È per natura onnipotente e onnisciente. Suské pensò e poi disse: – Onnipotente e onnisciente che vuoi dire?
– Vuoi dire che da sempre conosce ogni cosa. Può tutto e sa tutto.
– Tutto tutto?
– Tutto, proprio tutto.
– E per esempio adesso sa io e te di che cosa stiamo parlando?
– Lo sa e lo vede.
– Ed è buono? Ci vuole bene? Cioè, è una persona buona con noi?
– In primo luogo è infinitamente al di sopra di tutte le persone; in secondo luogo è il massimo della bontà e della generosità -, rispose con fede la sorella.
– Se è così, perché non ci ha creati tutti uguali?
– Siamo tutti uguali! Tutti abbiamo due occhi, due orecchie, due piedi…
Suské la interruppe: – Non intendevo questo. Volevo dire perché, certi sono belli e certi brutti, certi sono bianchi e certi neri…
La sorella tagliò corto: – Ai suoi occhi siamo tutti uguali.
– Ma noi invece soffriamo per queste differenze!
– Per colpa della nostra scarsa intelligenza.
– E allora lui poteva crearci un po’ più intelligenti! Hai detto che è onnipotente…
– Si vede che non l’ha ritenuto opportuno.
– Però, se è così buono come dici, come può permettere che a causa di un granellino di intelligenza in più che ci ha negato, noi soffriamo tanto?
– Perché vuole mettere alla prova la nostra fede.
– Poteva non crearci per niente, se doveva mettere alla prova la nostra fede.
– Questi discorsi non ci riguardano -, disse la sorella con tono imperioso.
Suské ci pensò su: – Seppure continuiamo così fino a domani, non concludiamo niente. Dimmi soltanto un’altra cosa: questo Dio, se gli chiediamo una cosa, lui ce la dà?
– Se è una cosa giusta, sì – rispose la sorella.
– Comunque, ha il potere di concederla?
– Se vuole.
– E che si può fare per farglielo volere?
– Bisogna pregarlo dal profondo del cuore.
– Beh, questo non ci vuole niente.
– Lo dici tu!
– Per me è facile. Tu soltanto dimmi come si fa.
– Mah… non so! In qualunque modo la persona si accorga, e senta, che è dal profondo del cuore.
– E se poi non ottiene niente?
La sorella aveva perso la pazienza: – Allora vuoi dire che non aveva pregato dal profondo del cuore, o lui non ha ritenuto opportuno di concederglielo-.
Si girò dall’altra parte e si addormentò.
Ma Suské, per l’emozione, non riuscì a prendere sonno. Oltre ad avere imparato tante cose, aveva anche travato una soluzione radicale. Ma quando e in che modo inoltrare la sua richiesta a Dio? Ci pensò un po’ e giunse alla conclusione che il momento migliore era la mattina all’alba, per due motivi: il primo era che tutti dormono, e Dio è meno occupato. D secondo, che alzarsi all’alba richiede sacrificio, e il sacrificio è prova di fede e di amore. In che modo poi era chiaro: dal profondo del cuore. Ma quante volte? Una volta le sembrò troppo poco. I numeri con le loro forme le sfilarono davanti agli occhi: tutti li soppesò attentamente. Il 9 le sembrò il più bello; e neanche troppo alto, da annoiare Dio.
Quando Suské riemerse dai suoi pensieri era giorno fatto.
Suské per 9 giorni si alzò prima del sorgere del sole, fece le abluzioni, si dispose verso la qibla°, e ogni giorno per 9 volte ripeté dal profondo del cuore: – O Dio, tu sei il migliore, tu sei onnisciente e onnipotente. Ti imploro: concedimi di diventare dello stesso colore degli altri.
Finite le preghiere, timore e speranza avevano riempito di nuovo significato i suoi giorni. Sentiva di essere viva come non mai. Pensava che bisognava dargli tempo, a Dio. Si ripeteva: “Magari si avverasse!”, oppure: “Quando si sarà avverato…”; ma non osava pensare a: “Se non si avvererà”. I suoi mutevoli stati d’animo la precipitavano dall’apice della speranza nell’abisso della disperazione. Il suo animo era inquieto: avrebbe desiderato non essere sconvolta a tal punto dai “Magari”, dai “Quando”, dai “Se”.
Infine Suské divenne adulta. Fu allora che i giorni trascorsi dalla sua preghiera le apparvero troppi. Ogni giorno, la mattina, appena l’aria s’illuminava, si era osservata le mani e le gambe, e dalla loro nera lucentezza aveva capito che nulla era accaduto. Con rimpianto ricordò il tempo in cui timore e speranza lottavano l’uno contro l’altro. E ricordò il piacere dei momenti in cui la speranza era più forte, e lei ad occhi aperti sognava. Sogni di arcobaleni, orizzonti sterminati, cieli azzurri e passeri innamorati. Si chiese: – proverò mai più di nuovo quella sensazione?
Suské si sforzò a lungo, in ogni modo, di scacciare le parole dalla mente, di fare qualcosa di tangibile, di smuovere la sua vita. Fu con tali pensieri che un giorno si recò alla legatoria, dove lavorava sua sorella: da dietro la vetrina si fermò a guardare. Vide le mani di lei che con perfetta padronanza e abilità incollavano insieme brandelli laceri e sparpagliati di carta, e li disponeva in forma di libro utilizzabile.
Guardò le proprie mani: erano deboli e impotenti; non un lavoro era uscito da loro. Fissò gli occhi negli occhi del suo riflesso sul vetro. La sua immagine le disse: – Tu, anziché rinvigorire le tue mani, hai affidato te stessa alle parole, e sei rimasta prigioniera dei “Magari”, dei “Quando”, e dei “Se”. Ehi nera Suské senz’arte né parte! Tu eri troppo fragile per metterti a posto con la vita; hai cercato cosi di nascondere la tua incapacità dietro il pretesto di una lotta col destino.
La sua immagine avrebbe forse continuato a rimproverarla per l’eternità, se un velo di lacrime non l’avesse offuscata. Suské riprese il cammino dicendo a sé stessa: – L’avessi saputo prima! Se qualcuno mi avesse guidata forse oggi… Ma che pretese! Il lecca-lecca a forma di galletto…! La bambola di coccio…! Il miracolo…! No, perché ci fosse miracolo, doveva esserci fede ma segno della fede è accettare il proprio colore. Io avrei dovuto accettarmi, essere una parassita, creata per finire schiacciata sotto i piedi, senza che importi niente a nessuno. Milioni di altri Bacarozzi, alcuni perfino più neri di me, hanno accettato il loro destino: si sentono utili e sono felici; o, almeno così credono.
Da allora la disperazione dominò l’esistenza di Suské: la disperazione che non soltanto aveva reso i suoi giorni più neri delle più buie notti, ma senza pietà le sferzava il cuore e l’anima. E lei, per sfuggire loro, si nascondeva nei vicoli. Neanche le parole la lasciavano; e le battevano contro le tempie fino a entrarle nel sangue. E lei, in preda a capogiro, si aggirava barcollando per angusti vicoli bui, i muri a scorticarle cosi il corpo.
Una notte, squarciando il cuore dell’oscurità, trascinò il suo corpo ulcerato e febbricitante fino al cimitero. Lì si prostrò a terra e pianse – lì si prostrò e pregò – lì pianse a dirotto e rinnego la fede. Di nuovo si prostrò e si pentì. Infine gridò: – Morte dove sei? Tu dispensi salvezza. Tu sei la migliore e la più generosa. Portami via con te e liberami dall’incubo dell’esistenza. Io ho sopportato il peso della mia vita – ogni suo giorno ha gravato come un’intera, triste vita sul mio essere, sul mio cuore, sulla mia anima – pur di meritare i tuoi favori. Tu vieni, e io non sarò più.
Poi fissò il suo sguardo carico di desiderio sulle tombe ed esclamò: – O fortunate fra le creature! Accoglietemi tra voi, aiutatemi, che io trovi scampo da tormento di parola e bruciore di frusta; che non mi affliggano insignificanza e sconfitta, separazione e ferita; desiderio di utilità e sete di miracolo non mi creino miraggi. Consideratemi di casa, partecipe della vostra perpetua quiete, e dal nero mio colore sarò libera infine.
Si arrestò; e questa volta trasse un sospiro sconsolato: – Cosa dico! Che sapete voi morti di differenze di colori! Il sudario non vi ha resi tutti dello stesso colore? Come facilmente il sudario vi rende tutti uguali! Che miracolo compie il bianco lino!… lino… miracolo… -. Corse verso la legatoria.
Quando ansimando comparve di fronte a sua sorella, si augurò che ella non le chiedesse spiegazioni; né la sorella ne voleva. Soltanto, la avvolse col suo sguardo carezzevole e le chiese: – Ti serve qualcosa? –
Colla – rispose Suské.
Tagliò il lino in bande e se le incollò con cura su tutto il corpo. Le sembrava che il colore nero degli occhi e dei capelli acquistasse particolare spicco dal bianco del lino. Anche lo specchio le sorrise e le disse: – Ora sei diventata come gli altri; anzi, meglio degli altri. Non ti senti leggera? Guarda le parole come stanno uscendo, e come adornano di rossi fiori le tue vesti!
– Finché c’è tempo – disse la ragazza – devo correre alla legatoria; mia sorella deve vedere il mio bell’abito! Anche lei, come me e con la mia stessa intensità, ha atteso questo giorno.
Lo specchio le lanciò un grido: – Non dimentichi nulla?
La ragazza, attraversando in fretta vicoli e giardini, si precipitava alla legatoria. Per la prima volta avanzava orgogliosa e a testa alta, senza sottrarre i suoi occhi agli sguardi della gente. Poi… vide gli arcobaleni, vide gli orizzonti sterminati, vide i cieli azzurri, e udì il canto dei passeri innamorati. Profumo di violette le lambì le narici. E fu soltanto allora che comprese le parole dello specchio. Sollevò la testa al cielo: – O Dio, ti ringrazio per avermi concesso di giungere al compimento del mio desiderio.
Quindi raccolse tutte le forze che le erano rimaste e aggiunse: – Anche sé a prezzo del mio sangue.
Parvin Soleimani Ardakani
°la direzione della preghiera